Verona campione d’Italia: il sogno del 12 maggio 1985

Verona Campione d’Italia: un sogno arrivato il 12 maggio 1985, fu la prima squadra di una città non capoluogo di regione a conquistare il titolo. Una storia ancora leggendaria.

Come vincere un campionato con undici titolarissimi, quattro riserve, un tecnico con il berretto di lana e la sana voglia di provincia? Gli ingredienti del Verona Campione d’Italia furono un mix invincibile nel torneo 1984-85, un campionato dal sorteggio integrale per gli arbitri, ma anche con gente come Zico, Maradona e Platini a partire con i galloni dei favoritissimi.

Perché rispetto al calcio odierno, quello dell’epoca regalava perle anche in provincia. Il Verona Campione d’Italia non fu lì per caso, aveva programmato, scelto per bene i suoi elementi e poi aveva sapientemente raccolto i frutti. Chiaro è che non sbagliò una mossa per vincere il torneo, anche nella scelta degli stranieri, non a caso titolarissimi e rimasti nell’immaginario collettivo. Il tedesco Briegel era il muro in mezzo, sia in difesa che davanti, Elkjaer era l’uomo che svariava su tutto il fronte d’attacco insieme a Galderisi. Segnò da scalzo contro la Juventus e quello fu un segnale del destino per una squadra rimasta nella leggenda. Un altro segnale, forse non capito subito, arrivò già dalla prima giornata: doveva essere la festa di Maradona alla prima in Italia, fu quella del Verona che riuscì a battere il Napoli senza difficoltà per 3-1.

Erano anni belli, gli stranieri tutti forti, le provinciali che diventavano forti e volendo anche i paragoni con la Longobarda, perché quel film poi non rivelò che fu il Verona Campione d’Italia nei titoli di coda.

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12 maggio 85, un giorno storico

curva Hellas - Getty images
Il Verona e la tifoseria, un rapporto sempre simbiotico – Getty Images

Gli scaligeri conquistarono lo scudetto con un turno d’anticipo, pareggiando a Bergamo per 1-1. Tanto bastò per distanziare il Torino, diretta inseguitrice. Sette giorni dopo ci fu la festa allo stadio “Bentegodi” con una media di 40mila spettatori che godettero anche lo show finale, il 4-2 sull’Avellino. A ripensarci, l’effetto nostalgia sale sempre più, quel team di Bagnoli vinse lo scudetto con 15 vittorie, 13 pareggi e 2 sconfitte, l’ultima proprio ad Avellino nel girone d’andata.

Segnò 42 gol, pochissimi per chi vince il titolo, ma ne subì 19, e furono i dati difensivi a prevalere spesso e volentieri. C’era Garella che parava con i piedi, sgraziato ma molto efficace, e una linea difensiva con Volpati (diventato poi dottore), Fontolan, Tricella e Marangon a far da guardia.

La compattezza arrivava anche a centrocampo, oltre a Briegel, Fanna imperversava sulla destra, Di Gennaro dettava i tempi, Bruni era dovunque. L’attacco di Galderisi ed Elkjaer dava pochi punti di riferimento.

Undici titolarissimi e quattro riserve, qualcosa di anomalo rispetto alle rose mostruose dei tempi odierni. Ma erano proprio altri modi di vedere il calcio, Osvaldo Bagnoli era quanto di più lontano dal prototipo di allenatore moderno che ammicca alla stampa. Bagnoli, berretto di lana e poche parole, preferiva parlare sul campo. E quando parlò bene ricevette in cambio uno scudetto storico.

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